Riflessioni sul libro di Federico Capitoni, La critica musicale, (Carocci, 2015)

Il lavoro del critico musicale Federico Capitoni colma una lacuna: mancava infatti in Italia uno specifico studio sulla materia, che ora viene analizzata in una agile guida (“bussola”- secondo l’editore Carocci). L’autore affronta immediatamente alcuni nodi filosofici che stanno alla base del fare critica. Archiviato il vecchio concetto della asemanticità della musica, per il quale il discorso verbale non avrebbe senso se applicato alle note, oggi gli studiosi vanno orientandosi verso un più equilibrato “formalismo arricchito”: la musica è forma, ma con un contenuto emotivo che è possibile spiegare a parole.

Come spiega il Nattiez la critica musicale opera come un metalinguaggio: un lavoro di interpretazione perennemente in divenire. A questo proposito Capitoni si serve della testimonianza del compositore Mauricio Kagel: “sia l’arte che la musica non possono fare a meno della parola”. Tracciato il perimetro delle definizioni di base si parte per la vera disamina e iniziano le dolenti note.

Scrive Capitoni: “fino a poco tempo fa non si doveva spiegare a nessuno in che cosa consistesse il mestiere di critico musicale. (…) Oggi con la progressiva sparizione del critico professionista e la proliferazione dei luoghi –più o meno virtuali- in cui a ognuno è concesso di dire la propria, soprattutto per le nuove generazioni l’espressione ‘critica musicale’ suona davvero misteriosa”. Ovviamente internet ha il suo peso, ma l’autore elenca anche altre cause: entra nelle redazioni per vedere come il mestiere di critico sia ormai stato esternalizzato, affidato spesso, anche su testate importanti, al “blog”. Se il blogger è un opinionista, secondo la vulgata giornalistica in auge oggi la testata può permettersi di risparmiare lo stipendio del critico musicale, dispensatore di una merce, “l’opinione” su un argomento, quello musicale, dove tutti si sentono “allenatori” e di conseguenza scatta il lavoro gratuito, una modalità che segna la fine dell’attività professionistica e l’inizio di quella hobbystica. Con questo non si vuole demonizzare l’opinione: “I critici non sono cattivi quando hanno delle reazioni soggettive, ma quando non ne hanno nessuna” , scriveva il filosofo tedesco Adorno, richiamato da Capitoni nel testo. La stringata disamina di Capitoni traccia anche una divisione tra la critica musicale “seria”, quella della classica e quella “pop” dedicata alle musiche giovanili. “Se la critica musicale classica sembrava condividere il campo d’elezione culturale più con il teatro, la letteratura e la filosofia, la maniera con la quale la critica pop sembra lavorare è quella cinematografica, intesa come il processo di costruzione del divo: grandi foto, poster, interviste, curiosità e poca –anzi spesso nulla- analisi di natura musicale”. Ecco, su questo punto mi trovo in disaccordo con l’autore che prende sotto gamba il lavoro dei migliori critici rock, nati sulle riviste che pubblicavano i poeti e gli scrittori della controcultura. Questa critica rock “nobile” si è spesso distinta per un approccio “sociologico” o “culturale” alla musica, producendo anche pagine di ottima fattura estetica. Oggi internet sta soppiantando anche la forma editoriale della rivista specializzata (rock, pop), mentre sembrano resistere meglio le fanzine dedicate a sottogeneri specifici (metal, hip hop, etc.). Se dal virtuale torniamo alla carta dobbiamo registrare un peggioramento generale. Capitoni spiega alcuni dei motivi che hanno condotto le pagine culturali dei quotidiani, anch’esse rese striminzite dalle nuove modalità giornalistiche, a dedicare sempre meno spazio alla musica. In particolare certifica quello che ogni critico serio in cuor suo sa: la morte della recensione, il cuore del lavoro del critico di stampo novecentesco, bandita ormai quasi del tutto dalle pagine dei quotidiani o ridotta a un simulacro di poche righe. Quindi un mestiere che ha circa duecento anni (tanti sono quelli sulle spalle della critica giornalistica) è condannato all’esilio dalla carta stampata e deve vagare nelle perigliose acque della rete. E il jazz? Capitoni non analizza nello specifico la critica jazz, ma sembra di poter vedere anche qui una professione allo sbando: schiacciata da un lato dalla musicologia e dall’altro tagliata fuori dalle redazioni dei quotidiani nazionali, dovrebbe rifugiarsi in internet, dove però come abbiamo visto si espone al mare magnum della libera interpretazione, delle manine e dei commenti brevi e coloriti, degli aforismi di twitter che non veicolano opinioni ma slogan. Per quanto mi riguarda penso da diversi anni che la critica jazz sia morta e sepolta e autorevoli commentatori ritengono che lo stesso sia accaduto a quella classica. Bandita dai giornali, gli unici che ancora pagavano qualcuno per farla, se diventa gratuita, la figura del critico si trova schiacciata tra due possibilità: in primis quella della fanzine, dove però l’appassionato vince, mescolandosi con il professionista. Si tratta di un dumping sociale dove internet privilegia quelle figure disposte a lavorare per meno soldi, anzi gratis, e che spazza via chi osa pensare che qualcosa vada retribuito. Fa leva sul fatto che l’appassionato riceve la suprema gratifica dell’opinione. Come se il dare giudizi o stellette fosse il vero lavoro del critico. In questo il “bar più grande del mondo” (internet, per l’autore del libro), trionfa con la modalità specifica di Tripadvisor per le recensioni enogastronomiche che hanno affiancato quelle dei “Raspelli” della carta stampata e dove sono gli utenti a giudicare la qualità dei ristoranti. Decine di utenti che descrivono lo stesso menu con toni e giudizi tra loro spesso opposti in una babele della critica peer to peer. L’unico critico a resistere a questo tsunami per Capitoni è quello cinematografico. Forse perché può ancora giudicare un film in “prima visione”, prima che la pellicola sia trasmessa in tutte le sale e quindi mantiene una sorta di monopolio sulla “prima” opinione, quella che orienta il futuro spettatore. Ho dei dubbi sulla tenuta anche di questa figura e di questo modello in un mondo amazonizzato dove tutti diventano critici di ogni tipo di prodotto culturale dal libro al cd, senza alcuna preparazione specifica e senza che vengano esplicitate le basi sulle quali si poggia il giudizio. L’opinione pura, privata di qualsivoglia riflessione adeguata diventa un sì o un no che non aiuta gli altri utenti nel formarsi un proprio giudizio articolato. La seconda figura che schiaccia il critico è quella dell’addetto stampa dilettante. Si badi: mentre l’appassionato “ruba” il mestiere al critico forse anche perché il critico è scaduto al rango di opinionista e compilatore di pagelle con voti e stellette, in questo altro caso il presunto appassionato “ruba” il mestiere a una eroica figura professionale che lotta per promuovere legittimamente un prodotto (sovente facendolo in maniera egregia, con passione e mezzi scarsi) e che si vede scavalcato da qualcuno che lo fa per ottenere “benemerenze” dagli addetti ai lavori o manate di quella merce che internet dispensa con generosità: gratuite pacche sulle spalle e promesse di “visibilità” al censore di turno. Torniamo al libro di Capitoni: un lavoro tanto buono da condizionarne la recensione, che si è fatalmente allargata fino a diventare una riflessione generale e merita una lettura attenta, ovviamente non solo riservata ai critici.

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