All’Azymuth di Jazz:Re:Found

PROLOGO FESTIVALIERO

Tento sempre di scansare la diatriba sui jazz festival più o meno puri. La purezza è un concetto che puzza di “difesa della razza”: fosse anche solo intesa come quella di un genere musicale. Apriti cielo, spero di non scatenare un putiferio, non è mia intenzione. Intendo dire che sulla corrispondenza del nome jazz incastonato in alcuni titoli di festival italiani rispetto alla programmazione promossa è difficile esprimere concetti alati. Non solo non mi convince la purezza: non mi convince neanche la presunta “s/vendibilità” connessa agli altri generi musicali nascosta in modo fraudolento dietro la parola jazz, manco questa fosse un talismano. Si può essere mainstream con il jazz (ad esempio invitando i soliti 5 nomi e questo è un’altro dei leitmotiv ricorrenti) o si può andare controcorrente scritturando artisti di nicchia raffinati- creativi nel blues, nel funk, nell’hip-hop, nell’elettronica, nel rock, etc. etc. Credo che su questo tema sbaglino gli appassionati accecati da settarismo e sempre in vena di scomuniche. Credo sbaglino i musicisti vessati e maltrattati in ogni dove nel nostro Paese e quindi poco lucidi nel giudicare; credo sbaglino spesso i direttori artistici, compressi tra i due estremi dell’ansia da prestazione piazza-pienaassessore-alla cultura contento e di fornire uno strapuntino caldo agli amici suonatori che spesso si confonde con la pratica del puro “scambismo” di favori praticato senza freni. Tra le mosche cocchiere di questa processione sbagliano i giornalisti che sono in via di estinzione e sbagliano i reduci di quella che una volta si sarebbe definita critica. Questi ultimi sbagliano per una quantità di motivi presunti o reali talmente ampia che meriterebbe un intero trattato a parte, un kolossal dove si mescolano compiacenza, egocentrismi, bassezze, ignavia, scambi di ruoli e favori, tradimenti, mancanza di deontologia, stati ossessivi e maniaco-depressivi mal curati, sindromi di Stoccolma, forse anche qualche reato minore da codice penale. Tenendo conto che spesso musicisti, critici, direttori artistici sono le stesse persone che si cambiano l’abito più volte al dì, spogliandosi delle sacrosante ragioni di categoria ma conservandosi stretti tutti i difetti, il devastante quadro diventa completo. Il pubblico in tutto questo si agita spaesato. Incanutisce di concerto in concerto e dopo il rito immersivo nella musica dal vivo si aggira ponendosi l’oziosa manzoniana domanda: Fu vero jazz?

JAZZ:RE:FOUND DAY 4

E veniamo al festival. E’ spocchioso pensare di incorniciare il jazz in un nome che ne invoca addirittura la rifondazione? Qualcosa cosa possa significare ripensare un genere musicale trovo coraggioso pensare che sia necessario un nuovo sguardo. Non piace a me? Non piace alla critica? Non piace ai jazzisti ortodossi, ai materialisti storici e ai talebeboppani? Credo che il direttore artistico Denis Longhi faccia bene a tirare dritto seguendo il suo sguardo sulla musica. Si è pensato un festival, si è cercato location adatte a ospitarlo, sponsor, Enti con i quali collaborare e persone che condividono il suo progetto. Lo fa da diversi anni e la crescita del suo progetto è evidente. Propone un menu per palati diversi tra loro e lo fa in un modo che spesso ha poco della fruizione tradizionale del jazz. Degli artisti che sono passati da Jazz Refound alcuni rimarranno nella storia e altri no, ai posteri la sentenza, per tornare a Manzoni, ma il dovere di chi pensa a un festival oggi è quello di scoprire la contemporaneità, di vivere esistenzialisticamente il proprio tempo, secondo una vocazione specifica e individuale che dialoghi con il mondo esterno. Giusto per evitare equivoci: non sono parente di nessuno in Jazz Refound (fino al 1ooesimo grado certificato) e per il festival ho ricevuto un accredito e nulla più: andandoci con la mia compagna ho comprato un secondo biglietto e ho cenato nei vari posti proposti utilizzando i token acquistati in cassa con una spesa che NON giudico modica (anche se poi la location ti ripaga abbondantemente in bellezza!). Comunque… mi sono pagato il diritto di giudicare in modo indipendente e di dire che mi piace andare a Jazz Refound perché essendo un curioso di natura mi sono sempre sentito attratto dal nuovo e poi… mi sono sempre anche divertito! Quest’anno ho potuto fare una puntata nel giorno di chiusura. Spegnevano luci e amplificatori i Casino Royale ma noi ci siamo concentrati sul pomeriggio. Louie Vega ha fatto muovere e ancheggiare l’uditorio con il suo dj set fitto di suoni neri e il suo flavour newyorkese. Gli Azymuth poi non hanno deluso le aspettative di chi li conosce da decenni: jazz, brasile e fusion per trio che ha suonato un set tirato, senza un momento di quiete ritmica. Quando hanno lasciato esplodere sul bis il loro successa da classifica Jazz Carnival, avevano già conquistato un pubblico di giovanissimi che ballava e cantava come se ci fosse ancora in tv Giovanni Minoli a condurre Mixer. Puro vintage di classe. I brasiliani mi sono entrati nel cuore, ma forse perché quello era il suono che si sentiva nel 1973 quando nascevo e i tre si mettevano a suonare insieme per una carriera che procede ininterrotta da cinquant’anni. Un sole al tramonto dietro i tre funamboli carioca ha donato al concerto la giusta saudade e ha suggerito una buona metafora dell’evento. Gli stessi giovani che hanno ballato con gli Azymuth si sono poi riversati ad ascoltare i giovanissimi Domi & JD Beck. Qui le parti erano invertite e i boomer, seppur in minoranza, cantavano e ballavano trascinati dai giovanissimi -e timidi, mi è sembrato- protagonisti. Dal palco arrivava musica dal vivo e non da un computer, suonata con sapienza e condita da una elettronica limitata. In alcuni brani -archiviato il tema che spesso sembrava un po’ una suoneria da telefonia mobile- quando si arrivava al solo si sentivano echi di Herbie Hancock, del jazz-rock anni Settanta, di funk e soul. Come dire: dal vecchio nasce il nuovo e il suono della black music rimane sempre il fil rouge (anzi nero, per rispettare la scala cromatica) che copre almeno un mezzo secolo vivente e pulsante, dagli Azymuth dei primi Settanta del Novecento a Domi & JD Beck dei primi anni Venti del Duemila.

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