Vita letteraria del principe romano del jazz

Marco Molendini, Pepito. Il principe del jazz, Minimum Fax, 2022

Il jazz è nato in certi bassifondi dove darsi un tono poteva rappresentare una redenzione consolatoria da una vita squallida. Per questo abbonda, nei suoi primi anni pionieristici, di figure capaci, grazie al proprio genio, di farsi “incoronare” dal pubblico. Si sono visti re e regine, una imperatrice, un conte, un duca. Quarti di nobiltà musicale che sono stati accolti in giro per il mondo dalle vere teste coronate (vedi la passione -ricambiata- della regina Elisabetta per Duke Ellington). Se nobili erano quelli che suonavano e nobili quelli che li ricevevano a corte, in alcuni casi i ruoli si sono talmente compenetrati da essere indistricabili nella storia del jazz. E’ il caso della baronessa del jazz, Pannonica de Koenigswarter, nata (profondamente ricca) Kathleen Annie Pannonica Rothschild. Visto il nome lunghetto serviva un diminutivo, Nica, buono per diventare uno standard jazz. Quanta parte ha avuto nelle vite dei jazzisti neri; quanto i drammi di Charlie Parker e Thelonious Monk sono passati attraverso di lei che si è guadagnata -grazie all’aiuto concreto, disinteressato e non giudicante offerto agli artisti- il privilegio di far da titolo a numerose canzoni ed essere chiamata con un nome-feticcio jazzistico. C’è un solo Prez, una sola Lady Day, un solo Bird e una sola Baronessa. Ma l’Italia, ci spiega il giornalista e critico jazz Marco Molendini, non ha nulla da invidiare a questo parterre sangue-blu: noi vantiamo un principe che non fu solo a modo suo un mecenate delle arti ma visse gran parte della vita professando il verbo del bebop. Invece di essere una figura da cappa e spada questi usò bacchette e spazzole, e invece dei duelli si infervorò in epiche jam session. Pepito Pignatelli era un nobile di altissimo rango e un batterista entusiasta. Come musicista poteva vantare qualche titolo ma come nobile ne aveva una caterva: più volte principe, duca, marchese, conte e Barone, nel suo album di famiglia poteva vantare un papa, un santo e un personaggio del purgatorio dantesco. Il paragone tra la vita della baronessa e quella di Pepito non sfugge a un esperto acuto come Molendini che nel postscriptum del suo libro con ironia dolce amara conclude: «La sostanziale differenza con Pannonica è che lei appartiene a una celebre famiglia di banchieri, mentre lui in banca ci è andato solo per chiedere prestiti o scontare cambiali». Il libro intreccia il racconto delle gesta di Pepito con la dolce vita romana, fatta di nobili decaduti, star del cinema, politici di rango, intellettuali e i soliti parassiti che girano intorno al bel mondo. E’ una italietta felliniana, pruriginosa verso i peccatori, untuosa verso gli altari e il potere, indulgente verso i molli rampolli delle classi agiate romane. Molendini si aggira con piglio sicuro tra i ricordi di questa Città Eterna, entra nelle vicende come testimone oculare e come attore non protagonista,un Jep Gambardella che con meno disincanto e più affetto per i personaggi ci racconta di tutti i grandi del jazz che arrivano a Roma e approdano al locale fondato da Pepito (e suo santuario): il Music Inn.

La Roma dei fine Sessanta lascia comunque filtrare nell’ammuffito clima barocco un po’ dell’aria dei tempi: se un occhio di riguardo nel libro va ai jazzisti che animano la scena, nomi come Gato Barbieri, Enrico Rava, Steve Lacy, Mario Schiano, in questo flusso di creatività si muovono i protagonisti del nuovo teatro come Carmelo Bene, Leo De Berardinis e il Living Theatre, pittori come Cy Twombly, Sol Lewitt e il glamour delle feste trasgressive di Mario Schifano con ospiti d’eccezione i Rolling Stones, mentre in città opera anche il collettivo di Musica Elettronica Viva. Molendini, diventato nel frattempo giornalista professionista e critico di jazz anche grazie allo stimolo iniziale di Pepito, continua a vivere dall’interno questa vicenda. Pagine memorabili descrivono le frequenti incursioni di Dexter Gordon al Music Inn dell’amico Pepito: «A Roma adora venire, si sente ormai di casa, in assoluta libertà: sa che gli ingaggi sono praticamente una festa e, soprattutto, che è libero di bere quanto vuole, con il proprietario del locale pronto a incentivare la sua inestinguibile sete». Molti di questi aneddoti e alcuni frammenti di quella musica si possono vedere e ascoltare nel recentissimo documentario Music Inn. Arriva il jazz a Roma, di Carola De Scipio, prodotto dal sassofonista Alfredo Ponissi e con le musiche di Enrico Pieranunzi (uno dei protagonisti della stagione musicale del locale). Il documentario offre uno spaccato sonoro e visivo alla storia del Music Inn, con decine di interviste e rare immagini di repertorio. Reperti visivi di una Roma e un’Italia estinte… Ma torniamo al libro. Il flusso dei ricordi si chiude con un finale amaro quando Picchi, la compagna di Pepito, decide, dopo la dipartita improvvisa del compagno, di togliersi la vita, non sopportando più la vita senza il suo principe. D’altronde al Music Inn si erano sentiti a casa personaggi tragici e leggendari come ChetBaker, Massimo Urbani, Charles Mingus. Senza autocompiacimenti, con un tono asciutto e blues, Molendini racconta di una musica che allora non era mai mestiere ma sempre si portava dentro una quota di rischio, poesia, fallimento, gioia.

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