C2C/MAKAYA MCCRAVEN/TORINO


Visto al C2C Festival, 5 novembre 2022

A inizio novembre, quando i bambini hanno appena smesso di deambulare vestiti da mostri, a Torino si tiene la settimana dell’arte con grandi fiere, mostre e decine di eventi a grappolo. Nel pieno tourbillon dell’art week torinese, tra esposizioni e vernissage, si inserisce anche la musica con il festival C2C. Quello che noi torinesi ci ostiniamo ancora a chiamare Club To Club da anni si mescola felicemente con l’arte contemporanea, ne permea spazi e intercetta pubblici, a volte anche prestandoli ad altre manifestazioni dell’affollata settimana. Gli ideatori di C2C presentano un palinsesto in grado di incuriosire, muovendosi dentro gli slabbrati confini della scena avant-pop (la definizione è loro). C2C è un contenitore ben congegnato, in grado di muoversi tra arte, design, musica senza etichette. E tutto quanto è cibo per quella cultura globale transumante, abituata agli spazi senza confini fisici della rete. Che il policentrismo sia dominante rispetto al vecchio ordine volendo lo conferma non un artista pop ma un musicista nell’alveo della black music più raffinata come Makaya McCraven che, in una intervista apparsa su Musica Jazz, ha spiegato: “Se si vuole capire the shape of jazz to come, dovremmo guardare ai piccoli centri dove accadono cose straordinarie. (…) Se vuoi ascoltare ascoltare cose nuove bisogna che viaggi ovunque, anche fuori dai distretti tradizionali”. Per questo il critico jazz, in cerca delle forme a venire –per seguire la metafora by Ornette Coleman/Makaya McCraven- penetra nelle sale del Lingotto, si mescola agli adolescenti che vogliono ascoltare Yendry o ai maturi fan degli Autechre, gli stessi che magari hanno letto il bellissimo libro di Valerio Mattioli, Exmachina (Minimum Fax, 2021), testo fondamentale nel raccontare (e nobilitare) definitivamente la storia della musica elettronica. Perché gli anni passano e tutte le musiche si storicizzano, come Club To Club che ha cambiato pelle e nome diventando l’adulto C2C, un festival che quest’anno vara la ventesima edizione. Il lungo prologo spiega come, antenne aperte sul presente, C2C abbia fatto un bel colpo invitando Makaya McCraven, un jazzista della generazione di Kamasi Washington,esploso con meno fragore mediatico ma che sta dimostrando di poter dire qualcosa di duraturo. Chapeau al direttore artistico di C2C che riesce a cogliere le novità e non ha paura di condurre il suo pubblico su territori lontani…Battendo spesso tutti sul tempo. Proprio questo mese McCraven è artista di copertina di Musica Jazz e il primo posto in cui suona non è un festival di genere. D’altronde anche McCraven non definisce la sua musica jazz e puntualizza che non lo facevano neanche Miles Davis o Duke Ellington e, come abbiamo già visto, ci invita a tenere aperti gli occhi su un mondo in evoluzione. Kamaya si autodefinisce uno scienziato del beat e presenta col suo quartetto quella che per logica conseguenza diventa “organic beat music”. Nel set del Lingotto il compositore e producer cede il passo al cuore “da batterista” e senza concedere nulla allo spettacolo martella il suo set di pelli senza sosta per più di un’ora. Il nucleo centrale del concerto è costituito dai temi presenti nell’ultimo disco In These Times. Brani come Dream Another, intricati bozzetti di ritmi sempre un po’ tumultuosi abbinati a melodie dolenti. E’ una musica strana, che non appartiene a nessun genere specifico e sembra provenire da..ogni posto. I temi sono semplici e all’inizio sembrano quasi evaporare come un segno effimero dei tempi, eppure invitano al riascolto. Ovviamente la dimensione live presenta arrangiamenti ridotti all’osso e la presenza sotto il palco di un pubblico trasversale in una location ampiamente post (postindustriale, postmoderna), indurisce ancor più la performance.

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