Guido Michelone intervista Filomena Campus

Tra le personalità di spicco sula scena jazz londinese c’è anche un’italiana, cantante, autrice, band leader, che, oltre collaborare con musicisti locali, lavora intensamente a numerosi progetti, come lei stessa spiega in questa intervista, raccontando anche la vita artistico-professionale nella capitale della Gran Bretagna in questi due anni di pandemia.

Filomena in un nostro colloquio prima del Covid, mi parlavi di Londra come centro europeo e forse mondiale del jazz. È ancora così? Cosa caratterizza il primato jazzistico della città?

Dopo Brexit e Covid le cose sono cambiate. La scena jazz londinese credo resti comunque un centro importante sotto diversi punti di vista, presentando un panorama inclusivo. Ad esempio la presenza di musiciste/i di background culturali diversi, e tanti giovani e meno giovani che arricchiscono il jazz di nuove sonorità, e la presenza, importante, anche se non ancora paritaria, di musiciste donne nei cartelloni nella stampa e nei media jazz, come mostra l’associazione https://womeninjazzmedia.com/. Nell’ultimo concerto che ho fatto lo scorso maggio al Vortex Jazz Club, locale leggendario di Londra, ero felicissima di vedere tante/i giovani nel pubblico. Non so se Londra potrà restare un centro europeo o mondiale per il jazz, in parte perché la realtà politica del Paese purtroppo non va in questa direzione. Si respira la voglia di apertura e incontri da parte degli artisti, che però si scontra con una chiusura culturale generale del paese, che certo non aiuta gli scambi culturali. Londra resiste come un’isola a parte, in cui jazzisti affermati a livello internazionale sono generosi nel coinvolgere giovani in nuovi progetti jazz, ad esempio i Tomorrow’s Warriors.

Da quanti anni risiedi in Inghilterra? Com’era l’ambiente musicale?

Vivo a Londra dal 2001. Quando arrivai trovai una città piena di iniziative, concerti, incontri, laboratori musicali nelle scuole e in varie organizzazioni, voglia di scambi culturali e artistici. Era una città straordinariamente aperta, multiculturale, inclusiva, meritocratica. Si poteva venire a Londra a cercare lavoro oppure a studiare. Oggi non è più possibile. In pochi possono permettersi le tasse universitarie duplicate o triplicate, e si può venire a lavorare qui solo se si ha già un contratto di almeno 30.000 Euro l’anno. Insomma, ‘the end of an era’. Io venni per fare un master in regia teatrale al Goldsmiths College, e dopo un anno ero in tour con la band di Orphy Robinson. Livello musicale altissimo (molti erano stati parte dei Jazz Warriors) e nessuna presunzione, anzi, tanta modestia. L’ambiente jazz mi accolse, divenne la mia famiglia, in particolare proprio grazie a musicisti e amici come Orphy, Rowland Sutherland, Dudley Phillips, che mi spinsero a crescere, a migliorarmi, a improvvisare, a creare miei progetti. Sono nate collaborazioni che ancora oggi continuano. Quando artiste/i con background culturali, “accenti” diversi (come il mio sardo/italiano), fanno musica insieme, il risultato non può non essere entusiasmante, non scontato. I ritmi, le armonie, il modo di concepire il suono, la voce, l’interplay, il modo di giocare e suonare insieme, il rapporto con il pubblico, si arricchiscono di questi incontri. E c’è anche molta professionalità nell’ambiente, dai tecnici agli organizzatori.

E adesso com’è la situazione a livello artistico-culturale?

Oggi la musica, l’arte, la cultura, e l’istruzione, che sono sempre stati il fiore all’occhiello di questo Paese, purtroppo subiscono attacchi quotidiani dal governo, e mi sembra di vedere sgretolarsi un mondo meraviglioso, senza alcuna ragione, se non quella di un nazionalismo, un populismo arretrato, chiuso in se stesso, che non mi sarei mai aspettata di vedere. Organizzazioni come Arts Council, PRS, e molti altri, vedono i fondi tagliati in maniera sempre più drastica. Il governo conservatore, nel pieno della pandemia, che come in altri paesi ci ha impedito di lavorare per due anni, ha detto agli artisti di riqualificarsi in altri settori e di cambiare lavoro. Il 30% dei musicisti è stato costretto a farlo. Chi insegnava online o aveva altre possibilità ha potuto continuare a fare musica, ma certo non mi sarei aspettata un trattamento di questo tipo in un paese in cui le arti sono sempre state un punto di orgoglio. Ora la situazione è cambiata, e sta peggiorando. Londra, anche dopo i disastri della Brexit e del Covid, come dicevo resta ancora un’isola a parte in Gran Bretagna, ma i danni si vedono anche qui. Ora per noi musicisti ad esempio è complicatissimo organizzare tour all’estero, a causa dei permessi di lavoro, della burocrazia, dei controlli degli strumenti alla dogana, e molto altro. Insomma, se le cose non cambieranno, per il jazz, come per le arti in generale, non si mette bene. E’ anche più complicato avere a Londra ospiti europei, per lo stesso motivo, per cui gli scambi e le presenze internazionali sono già parecchio ridotte.

Hai Parlato della Brexit con qualche collega? Come Ha reagito l’ambiente jazzistico a questa legge votata per lo più in campagna?

La maggior parte di colleghe e colleghi jazzisti a Londra odiano la Brexit. Siamo però consapevoli che la metà del paese, anche grazie a una campagna di fake news e scarsissima informazione sulle conseguenze di una scelta del genere, ha scelto di uscire dall’Unione Europea. Ci sono persone, a iniziare dal nostro primo ministro, che sono felici di tornare ai sistemi di misura imperiale con once e libbre, o avere il simbolo della corona reale nel bicchiere della loro pinta di birra, dimenticando la realtà di quanti diritti e vantaggi abbiamo perso, a iniziare dalla libertà di movimento, vitale per i musicisti.

La forza dell’attuale scena jazz londinese penso che consista nel fatto che Londra sia una città multietnica, così come lo era New Orleans a inizio Novecento o New York da cent’anni in qua. È solo questo o c’è dell’altro?

Come ho accennato prima, sicuramente la forza della scena jazz londinese dipende proprio dall’incontro e dalla convivenza di diverse culture, da un rispetto profondo verso gli artisti, le arti e la cultura in genere. Ad esempio, se qui dici che sei musicista, non ti chiederebbero mai “sì ma che lavoro fai?”. Ora la tendenza purtroppo inizia a cambiare e ad avvicinarsi all’idea ignorante e populista che con l’arte non si mangia, per cui, se si dovesse cambiare lavoro, come la pandemia ha dimostrato, forse non sarebbe una cattiva idea. È davvero una sconfitta per il mondo artistico britannico, e non solo, e spero che gli artisti e gli attivisti si sveglino, almeno protestino, e partecipino a una resistenza creativa contro la distruzione quotidiana che il governo conservatore sta attuando. Resistenza che invece non vedo per ora.

Come sta reagendo la Londra del jazz al rallentamento della pandemia e all’ulteriore problema della guerra in Ucraina? Tra l’altro, proprio un giornale inglese giudicava il jazz festival di Leopoli come tra i migliori al mondo.

Credo come in tutto il resto dell’Europa. Stremati da Brexit e pandemia, ora il fatto di avere dietro casa un conflitto sanguinario, assurdo, e pericolosissimo per tutti, sta mettendo a rischio l’equilibrio anche psicologico di tanti. Si vede dalla fragilità degli studenti all’università, ho una bravissima studentessa di Mosca, che vive e studia in un Master di musica a Londra, che, soprattutto nelle prime settimane della guerra, era disperata. Il mio collega e caro amico, il grande vocalist Cleveland Watkiss, fino a poco prima della pandemia ha fatto molti tour in Ucraina e in Russia. Mi diceva quanto venisse accolto bene, quanto il pubblico amasse il jazz. Come artisti ed esseri umani davvero non riusciamo a capire ed accettare la follia e la crudeltà di quanto sta succedendo. Forse ci sentiamo impotenti davanti al fatto che nel 2022 siamo ancora incapaci di risolvere problemi senza ammazzarci a vicenda. La storia non ha insegnato niente. C’è anche la consapevolezza di tante altre guerre, magari più lontane da noi, dei rifugiati disperati che ora da questo paese vengono spediti senza pietà in Rwanda, delle donne afgane che hanno perso la libertà. Insomma c’è una narrazione discriminatoria che non dovremmo accettare.

Passando a te, i tuoi progetti musicali (e non) su Londra?

Penso alla gioia lo scorso novembre di tornare a suonare al London Jazz Festival dopo due anni di silenzio forzato, facendo sold out, con un pubblico incredibile. Eravamo felici come bambini la mattina di Natale. Abbiamo presentato un nuovo progetto con il mio quartetto con Steve Lodder al piano, la bravissima Charlie Pyne al contrabbasso, e Rod Youngs alla batteria. Ho celebrato venti anni di vita, musica, e teatro a Londra, con nuove composizioni e brani di progetti che mi hanno accompagnato questi anni, da Jester of Jazz a MonkMisterioso, a Italy VS England. Registreremo il nuovo album spero questo autunno, lo presenteremo al prestigioso jazz club PizzaExpress di Dean Street a Soho il 19 Ottobre. Poi sarei felice di portarlo anche in Italia (con l’agenzia ZenArt che mi rappresenta in Italia), visto che è un progetto internazionale, che funziona bene nei teatri e nei festival jazz, ha riferimenti al mondo del teatro e della letteratura italiani, comprese le mie collaborazioni con Stefano Benni, Franca Rame, e altri artisti. E a proposito di Franca Rame, durante la pandemia ho iniziato un dottorato di ricerca su di lei, alla Royal Central School of Speech and Drama, una delle università del teatro dove hanno studiato da Judi Dench, a Vanessa Redgrave, a Graham Norton.

Ma è vero che nel Regno Unito c’è sempre stato un forte interesse per il teatro di Franca Rame e Dario Fo?

Sì, e il mio lavoro ha lo scopo di rivalutare i tanti ruoli di Franca (che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente), come autrice, regista, attrice, capocomica, archivista, e altro, perché, ora che lei e Dario non sono più con noi, li stiamo un po’ dimenticando, e soprattutto il nome di Franca sta sparendo dalle pubblicazioni internazionali sul loro teatro. Quindi bisogna fare qualcosa. Il dottorato è sia pratico che teorico, e in collaborazione con la Fondazione Fo Rame, sto creando un nuovo progetto di jazz, teatro e improvvisazione, ancora work in progress, che presenterò il sei giugno al Transit Festival all’Odin Teatret in Danimarca e poi a Settembre all’Istituto Italiano di Cultura di Londra, insieme a un incontro con la filosofa Adriana Cavarero. Nel progetto, che si chiama ‘To Be Franca’ ci sono testi di Franca, comprese alcune scene comiche, arrangiamenti jazz di loro canzoni famose (Ma che aspettate a batterci le mani, Stringimi forte i polsi, La nonna pazza, eccetera), e nuove composizioni a lei dedicate, che stiamo scrivendo insieme al pianista Steve Lodder. Il testo di una canzone fu corretto proprio da Franca. Per me è anche un modo di giocare con l’improvvisazione vocale e quella teatrale, di cui Franca era la più grande maestra essendo nata in una famiglia di attori viaggianti, che aveva radici nella Commedia dell’Arte. Un tributo a una grandissima artista che merita di essere ricordata, riconosciuta e celebrata.

E poi, se non erro, sempre a Londra, Filomena, ti occupi anche di radiofonia?

Da qualche anno mi diverto tanto con la radio. Ho un programma, ‘London One Jazz’, il sabato alle 17 italiane, sulla radio degli italiani a Londra, London One Radio, seguitissima. Un modo di ritagliare uno spazio per far conoscere il jazz in una radio commerciale, dove ho sempre tanti ospiti in studio. Sul mio sito si trovano i podcast delle puntate: http://www.filomenacampus.me/radio-broadcasting. Da febbraio curo anche un programma nella radio inglese Jazz London Radio (www.jazzlondonradio.com) il venerdi alle 18 italiane e in replica la domenica alle 16 italiane. Li potete ascoltare online.

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